domenica 3 marzo 2013

Filosofando Club

Arredo Facile: Soluzioni arredo (prima pag.): di GIOVANNI BORTOLI Introduzione Tante possono essere le situazioni che ci spingono ad avvicinarci alla scelta di nuovi arredi o an...

martedì 27 marzo 2012



24 marzo 2012
di GIOVANNI BORTOLI
"Come massima disgrazia della nostra epoca,che non permette ad alcunché di pervenire amaturità, devo considerare il fatto che nell’istanteprossimo si consuma quello precedente, si sprecanoi giorni e si vive sempre alla giornata, senzacombinare nulla". (J. W. Goethe, lettera del novembre 1825)



“Economia di tempo, in questo si risolve in ultima istanza ogni economia” (Karl Marx, Grundrisse)





Viviamo nell’epoca della fretta, un “tempo senza tempo” in cui tutto corre scompostamente, impedendoci non soltanto di vivere pienamente gli istanti presenti, ma anche di riflettere serenamente su quanto accade intorno a noi. Di qui il paradosso di una filosofia della fretta, nel tentativo di far convergere la “pazienza del concetto” e i ritmi elettrizzanti del mondo. L’endiadi di essere e tempo a cui Martin Heidegger aveva consacrato il suo capolavoro del ’27 sembra oggi riconfigurarsi nell’inquietante forma di un perenne essere senza tempo. Figlio legittimo dell’accelerazione della storia inaugurata dalla Rivoluzione industriale e da quella francese, il fenomeno della fretta fu promosso, sul piano teorico, dalla passione illuministica per il futuro come luogo di realizzazione di progetti di emancipazione e di perfezionamento. La nostra epoca “postmoderna”, che pure ha smesso di credere nell’avvenire, non ha per questo cessato di affrettarsi, dando vita a una versione del tutto autoreferenziale della fretta: una versione nichilistica, perché svuotata dai progetti di emancipazione universale e dalle promesse di colonizzazione del futuro. Nella cornice dell’eternizzazione dell’oggi resa possibile dalla glaciale desertificazione dell’avvenire determinata dal capitalismo globale, il motto dell’uomo contemporaneo – mi affretto, dunque sono – sembra accompagnarsi a una assoluta mancanza di consapevolezza dei fini e delle destinazioni verso cui accelerare il processo di trascendimento del presente.



 




23 MARZO 2012









L'ASSOLUTO-LA PRIMA CAUSA




di GIOVANNI BORTOLI











"... Io sono fermamente convinto che l'uomo di media cultura di questa civiltà, con gli strumenti che ha a sua disposizione, cioè le sue conoscenze e la sua intelligenza, possa farsi un'idea di Dio che non sia un oltraggio alla ragione e che, al tempo stesso, sia aderente alla realtà.  ... 




Siccome a Dio si fa risalire l'origine di tutto quanto esiste, prima di credere che Dio esiste, è lecito che io, uomo di questa civiltà, mi domandi se l'esistente ha avuto un origine, oppure non sia esistito da sempre; che parta cioè dalla posizione dei cosiddetti "atei" e mi ponga, come ipotesi di lavoro, che la realtà, nella quale siamo immersi, sia perfettamente materiale e che non sia stata "originata", cioè sia esistita da sempre. 


E' chiaro che, in questo caso, non avrebbe una fine, perchè ciò che fosse esistito da sempre, non potrebbe cessare di esistere.  Io posso immaginare che una civiltà distrugga se stessa, ma non che la materia, posta come unica realtà esistente, cessi di esistere. 


Se invece posso ragionevolmente credere che il cosmo, ossia l'insieme degli universi, finisca consumato dalla sua stessa esistenza, allora è chiaro che ha avuto un origine, e se ha avuto un origine è altrettanto chiaro che tutto quanto è esistito, esiste, esisterà, non è tutto in senso assoluto, perchè oltre quello esiste per lo meno una causa generatrice, cioè una causa che era prima che l'esistente fosse.  Vedremo poi che considerazioni fare su questa causa. 




Allora so che le osservazioni degli astronomi moderni hanno portato alla constatazione che viviamo in un cosmo in espansione, cioè che gli universi si allontanano gli uni dagli altri e da un centro dello spazio (centro ideale ovviamente). 


Sulla base di questi dati di fatto incontrovertibili, sono nate due principali ipotesi per spiegare l'origine e lo sviluppo del moto di traslazione degli universi; entrambe le ipotesi concordano sull'origine che sarebbe la conseguenza di una esplosione avvenuta in questo punto ideale, in questo centro ideale del cosmo. 
Divergono invece sullo sviluppo.  Infatti, secondo la prima, la materia dei corpi stellari, quando questi hanno raggiunto la velocità "critica" di allontanamento dal  centro, si smaterializzerebbe e causerebbe così la graduale ma totale fine del cosmo astronomico. 




Ora, per pochi istanti, consentitemi di tornare nei miei panni di disincarnato per affermare che quest’ipotesi è perfettamente azzeccata, come lo dimostra la formula einsteiniana secondo cui la massa di un corpo in movimento è uguale alla massa dello stesso corpo diviso la radice quadrata di uno meno il quadrato della velocità a cui è sottoposto il corpo diviso il quadrato della velocità della luce. 
Einstein chiama questa velocità critica "velocità della luce".  Ponendo che la velocità a cui è sottoposto il corpo (nel nostro caso la velocità di traslazione di questi sistemi stellari che si espandono) raggiunga la velocità della luce, ossia la velocità critica, e vedete, voi matematici, che cosa succede alla massa del corpo in movimento secondo questa formula. 




Detto questo chiudo la parentesi e me ne torno nei miei panni di incarnato a esaminare le ipotesi di cui dicevo. 
Secondo l'altra ipotesi, invece, gli universi, raggiunto un punto nello spazio, invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi nel punto ideale dal quale partirono e dove, a seguito di una nuova esplosione, nuovamente ripartirebbero e così via. 


Ora, noi intanto possiamo osservare che il limite dove, secondo la prima ipotesi, la materia che compone i corpi stellari, si smaterializzerebbe, ovvero, nell'altra ipotesi gli universi invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi nel punto ideale centrale, sarebbe in ogni caso un limite al cosmo, anche se lo spazio fosse di tipo euclideo, cioè infinito e indipendente dalla materia.  Dunque secondo l'una e l'altra ipotesi il cosmo sarebbe limitato e necessariamente sferoidale. 




Ora, ciò che è limitato non può avere una durata illimitata, e questo mi basterebbe, perchè se il cosmo finisce, è chiaro che ha avuto un'origine e quindi una causa.  Ma io preferisco invece proseguire nell'esame delle due ipotesi per vedere se mi conducono ad una diversa conclusione. 


Ripeto: secondo la prima, il destino del cosmo astronomico sarebbe la graduale ma totale fine per smaterializzazione; secondo l'altra sarebbe una sorta di moto perpetuo, di andirivieni dal centro alla periferia di questi corpi celesti, di questi universi. 




Ora, io che mi reputo un ateo serio e coerente, debbo prendere in considerazione solo la seconda ipotesi, perchè, come ho detto prima, se ammetto la prima, ammetto la fine del cosmo, e quindi l'inizio, e quindi la causa.  Debbo invece vedere se posso ragionevolmente credere che il cosmo sia una sorta di perenne "pulsazione", un moto perpetuo di questi corpi celesti, oppure una trasformazione continua della materia che lo compone.  Il "Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma" sembrerebbe confermare questa ipotesi. 




Ora, io so che il principio della conservazione della massa, dichiarato universalmente valido dalla meccanica classica, ed il principio della conservazione dell'energia (visto che si è scoperta la relazione che lega la massa all'energia) sono stati invece smentiti, direi in modo dirompente, dalla scoperta dell'energia atomica.  Non solo, ma anche più recentemente, dall'esame di certi fenomeni che avvengono nello spazio intergalattico. 




Ora, la mia cultura non specialistica, di uomo di questa civiltà, non mi consente di addentrarmi con osservazioni scientifiche nell'esame di eventi cosmici, è chiaro; posso però capire, dai fatti con cui mi scontro tutti i giorni, un principio molto importante e cioè che per fare un lavoro ci vuole energia, e che nessuna macchina e nessun sistema non produrrà mai più energia di quanta ne consumi, altrimenti il moto perpetuo non sarebbe più un assurdo meccanico.     ................... 




Allora, tornando alla mia teoria, mi pare che io possa pensare con ragione che se anche questo moto di va e vieni, dal centro alla periferia, dei sistemi stellari, si ripetesse indefinitamente, l'energia necessaria a questo moto, ancorché si generassi in qualche modo, magari a spese della massa della materia, non si rigenererebbe mai in misura totale, per cui a lungo andare sarebbe la stasi, cesserebbe il moto del cosmo.  Che poi questa stasi riguardi il divenire della materia o la materia in se stessa, per l'aspetto che mi sono posto del problema non fa alcuna differenza, perchè pervengo a concludere che se il divenire cessa, vuol dire che ha avuto un inizio ed una causa, e questo mi basta. 


Tuttavia mi sembra più logico pensare che, se cessa il moto in seno al cosmo, non cessa solo il moto di traslazione degli universi, ma cessa il moto delle particelle e dei corpuscoli in seno alla materia e quindi cessa la materia e cessa lo spazio, emanazione della materia; e cessa il tempo, dimensione dello spazio. 
E la dimensione immediatamente più sottile? 


Noi abbiamo visto che il riassorbimento nel piano fisico consiste nella migrazione della materia dal centro alla periferia del cosmo; nel piano astrale il movimento è perfettamente l'opposto, dalla periferia l'energia si ritrae, si concentra nel centro ideale; il piano mentale è analogo al piano fisico: la mente si spersonalizza, si espande, raggiunge la periferia; il piano akasico è simile al piano astrale, cioè la rifrazione di sentimento in un unico punto del sentire; nel piano spirituale, il Logos, centro di questo piano che si espande, torna nella indifferenziazione. 


Vedete come, in fondo, questi movimenti caratterizzino, poi, il destino degli individui: la mente che si spersonalizza, l'energia che si ritrae, il sentimento che si fonde in una comunione unica, il Logos che torna alla vastità del tutto. 




Dopo aver detto tutte queste belle cose ho il dovere, però, di avvertirvi e di dirvi che per farle capire a voi, noi ci serviamo di immagini di comodo, salvo poi mettere in evidenza tutti i limiti. 
Una di queste è il cosmo, presentato come un'enorme sfera contenente tutte le materie, di diversa densità, che costituiscono i piani di esistenza coesistenti senza possibilità di interferenze dannose, in un ambiente in qualche modo oggettivo.  Questa immagine serve molto bene a farci capire la coesistenza dei piani di esistenza, per farci capire come il grossolano stia bene, possa compenetrarsi con il sottile, e come i piani di esistenza non siano differenti ubicazioni spaziali, ma semmai, appunto, diverse identità materiali comprendenti tutte le forme di vita che sono proprie alle singole densità. 


Tuttavia questa immagine non rende tutta la verità, anche se può sembrarlo. Se voi domandaste ad un'entità del piano astrale, che stesse ascoltando questa sera, dov'è, essa vi direbbe che è qui fra voi, in un dato punto della stanza, confermando, in qualche modo, con la sua asserzione, l'esistenza di uno spazio oggettivo, contenente, in tutti i punti della sua estensione, i diversi piani di esistenza. 




Io vorrei, invece, farvi capire che se un'entità, rivestita di un corpo astrale, vi potesse vedere, ciò non sarebbe dovuto al fatto che divide il vostro spazio e quindi, potendo percepire il più sottile, necessariamente dovrebbe percepire il più grossolano, ma per un'altra ragione.  Infatti se voi, abitanti del piano fisico, aveste la possibilità di vedere a livello più sottile (poniamo il livello atomico) voi non vedreste più gli oggetti che vedete, ma vedreste unicamente un ammasso di atomi come un cielo stellato in una notte serena. E non basterebbe la diversa densità dello spazio, il diverso numero di atomi che costituiscono l'aria e gli atomi che costituiscono i corpi, a farvi percepire gli oggetti.   ...... 
Immaginate poi la visione nel piano astrale.  Con tutto questo intendo dire che se un'entità del piano astrale può percepire il piano fisico, non è, ripeto, perchè condivide lo stesso spazio, ma per un'altra ragione che, questa sera, non ci interessa esaminare. 


Allora, questa immagine, di cui dicevo all'inizio, del cosmo come un'enorme sfera, se ha il pregio di farci capire che i piani di esistenza non sono tanti cicli o inferni danteschi, ha tuttavia il difetto di farci credere in uno spazio oggettivo. 


Ora, noi abbiamo ricordato, questa sera, che qualcuno considera lo spazio come una sorta di emanazione della materia; ciò è molto se riesce a staccarsi dal concetto del vecchio spazio euclideo, quello della geometria o meccanica classica; ma non è abbastanza se, per capire che non esiste uno spazio vuoto, noi pensiamo a uno spazio tutto pieno di materia. 




Allora vogliamo servirci di un'altra immagine di comodo, un altro esempio. 
Supponiamo che voi siate in un ambiente lontano da questo, completamente al buio, e che siate collegati con questo ambiente -in quel momento perfettamente illuminato- con una macchina modernissima che riproduca, attorno a voi, in tre dimensioni, questa stanza.  Dopo qualche tempo voi avrete la netta sensazione di trovarvi qui, esattamente nel punto dove sarebbe collocato l'elemento sensibile per riprendere la scena. 
Ancora una volta i vostri sensi vi avrebbero tratto in inganno; un inganno irrilevante nei rapporti fra voi e i presenti in questa stanza; ma un inganno che occorrerebbe svelare ed esattamente dimensionare nel momento in cui noi volessimo comprendere la realtà di ciò che è. 
......................... 
  
ESAME DELLA "PRIMA CAUSA" 
... La causa del tutto, cioè la "prima causa" deve essere indipendente dal tutto. Non deve dipendere da alcunchè, cioè deve essere la prima causa increata. Altrimenti dovrei spostare il mio esame fino a trovare la causa esistita da sempre. 
Ora, poichè siamo al di fuori del tempo e dello spazio, mi pare opportuna una precisazione, cioè sostituire l'avverbio di tempo "sempre" con un vocabolo più adatto, e questo è "eternamente", perchè nel linguaggio comune si confonde il significato di "eterno" con quello di "perpetuo" e di "perenne".  Noi intendiamo "eterno" senza tempo; mentre "perpetuo" è qualcosa che ha avuto un inizio e che continua in un supposto tempo senza fine; "perenne" che non si esaurisce mai. 




Dunque la prima causa è "eterna". 
Se è eterna, cioè senza tempo, è immutabile; perchè se mutasse avrebbe, in qualche modo, una successione.  Poi deve essere assoluta, cioè indipendente da tutto, altrimenti, come ho detto, non sarebbe prima causa. 
Se è eterna, immutabile, assoluta, non si scappa, deve essere "una".  Se è "una", tutto quanto esiste, occupa tutto quanto esiste; allora è illimitata.  
Se è illimitata vuol dire che niente la limita e quindi posso affiancare a questo concetto, l'altro concetto: è infinita.  Se è infinita non esiste un punto ove essa non sia, quindi è onnipresente, e poichè è eterna, è "l'eterna onnipresenza". 
Se allora è eterna, immutabile, assoluta, illimitata, infinita, onnipresente e se confronto i caratteri di questa "prima causa" con quelli universalmente riconosciuti, dalle filosofie e dalle religioni, a Dio, vedo che posso chiamare, questa mia "prima causa", Dio. 
Se è onnipresente, è a contatto col tutto; niente, quindi, può esserle ignoto; allora è onnisciente. 




Ora, se guardo con quanto ordine e intelligenza si svolge la vita naturale del creato, non posso non credere che altrettanto ordine ed equilibrio non sia in ciò che ne è stato la causa.  Per cui questa "prima causa" o Dio, deve necessariamente essere, perlomeno, tanto intelligente, e quindi sapiente, della totalità di ciò che ha generato. 
E proprio il "generato" mi conduce a fare un'altra constatazione, e cioè che non posso pensare che tutto quanto esiste sia stato tratto dal nulla, ma che l'unica conclusione alla quale posso logicamente pervenire, è che Dio l'abbia tratto da se stesso, cioè che sia stato emanato. 


Non solo, ma non posso pensare all'emanato come a qualcosa staccato da dio, che ne viva autonomamente, senza negare a Dio il suo carattere assoluto; perciò l'emanato deve rimanere in Dio. 
E se è così, non posso pensare a Dio, completo dell'emanazione e a Dio privo della sua emanazione, come a due momenti diversi della sua esistenza, perchè negherei a Dio il suo carattere immutabile ed eterno. 
Perciò l'emanato non solo deve restare in Dio, ma deve esservi sempre stato. 
Se, allora, causa e causato sono una realtà unica, quell'inizio e quella fine che ho ricercato e ritrovato nell'esistente, non sono eventi oggettivi, sono illusioni, sono apparenze. 




Allora quanto noi percepiamo non è la realtà; è l'apparenza di essa. Sono congetture che la nostra mente costruisce su informazioni che le pervengono dai sensi, ma non è la realtà di ciò che è. 
La realtà è ciò che è, e non ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere che sia. 


Allora com'è conciliabile questa apparenza con una realtà diversa? 
Certo deve esserci un modo comprensibile che concili questi due aspetti del problema, ed è proprio da questa spiegazione che devono scaturire i valori antropologici, e non il contrario.  Cioè  errato sarebbe, da valori umani, immaginare la realtà di Dio e su quello creare un'etica. E mi pare che proprio questo errore sia stato fatto.  Cioè partendo da ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere realtà, gli uomini abbiano tratto tutte quelle concezioni del divino che ne fanno un essere antropomorfico, se non nell'aspetto, per lo meno nel comportamento.  Invece mi pare più proprio pensare che Egli sia la causa di tutto, come io ho postulato, ma ne ho dedotto che "causa" e "causato" debbono essere un'unica realtà. 
Oppure lo posso immaginare come un ordinatore di un caos preesistente, ma ne ho dedotto che se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la sua natura immutabile ed eterna. 
O lo posso immaginare come essere da cui traggono origine tutti gli altri esseri; ma se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la Sua natura infinita e indivisibile. 


Allora cosa significa? 
Significa che io posso immaginare Dio come più mi aggrada, come più mi fa piacere, ma per essere veramente tale, Egli non può che essere l'unica verità, l'unica realtà, perchè solo così Egli è immutabile, infinito, indivisibile, eterno, perfetto, completo, onnipresente, onnisciente, assoluto. 
Questo è il Dio al quale posso credere senza far torto alla mia ragione." 
  
  
DIVENIRE ED ESSERE 
Il cosmo esiste in Dio in tutte le sue fasi di manifestazione, dall'inizio alla fine nell'eternità del non tempo; perchè, ripeto, un divenire che duri un tempo perpetuo, cioè che abbia avuto un inizio e non abbia una fine, è doppiamente impossibile: primo, un tempo senza fine non può esistere; secondo, perchè in ogni caso dovrebbe trattarsi di un reale divenire, che è inconciliabile con l'immutabilità di Dio.     ......... 
L'uomo deve sentirsi un "essere", non un "divenire".  


Voi pensate alle fasi successive della vostra esistenza come a delle promozioni in carriera, come un impiegato può passare e diventare capoufficio o direttore cambiando le sue mansioni, ma non il suo "essere". 
Non si raggiunge mai un nuovo essere, col divenire.  L'essere è del "sentire", della coscienza; il divenire è del corpo mentale. 
Voi potreste conoscere tutte le cose che conosce un Maestro, ma solo questo non vi renderebbe tali. 


Solo il "sentire" appartiene alla realtà dell'essere". Così quando osserviamo un'esistenza nelle sue fasi, comprese dal selvaggio al superuomo, noi non osserviamo un selvaggio che "diviene", ma osserviamo le molteplici fasi di esistenza, cioè di "essere" di quella individualità, e poiché le fasi si susseguono dal più semplice al più complesso, voi dite che l'individuo evolve.   Noi pure lo diciamo, le parole sono le stesse, ma ciò che vogliono significare è profondamente differente. 




Questo sarebbe meraviglioso in politica, ma siccome noi politici non siamo, quando parliamo vogliamo significare qualcosa; così quando diciamo che l'individuo "evolve", non intendiamo dire che l'individuo "diviene".  Un'esistenza individuale è già tutta completa in sè; niente può aggiungersi ad essa.  Così "evolvere" non può significare "crescere", ma può voler dire solo che i differenti "sentire" di quella individualità, si manifestano, vivono l'attimo eterno dell'esistenza. 


Ciò è incomprensibile se si crede che l'Emanato si sviluppi in un tempo oggettivo, staccato da Dio, vivente una realtà senza tempo. 
Ecco l'errore fondamentale che ha afflitto le teologie di tutti i tempi e di tutti i popoli. L'Emanato fa parte integrante di Dio, la sua esistenza fa parte dell'esistenza di Dio. Ecco perchè non vi può essere un reale divenire nell'Emanato. 


Comprendo la vostra difficoltà ad afferrare questi concetti. Il mondo che voi osservate è un mondo che sembra in continuo divenire; la realtà che cade sotto i vostri occhi, vi pare una realtà che continuamente divenga, certo, ma dovete tenere presente che questo è quello che appare, non quello che è. 


Ecco quello che andiamo ripetendovi da tempo: "La verità non è che voi osservate un mondo che diviene, ma è che voi avete una visione dinamica di un mondo statico. Non è la piante che cresce, che continuamente diviene, ma siete voi che ne osservate, in successione, le fasi di esistenza, voi che credete che le fasi già osservate non esistano più. Errore! Esistono nella eternità del non tempo." 
Vedete, abbiamo cercato di farvi capire che la realtà è tutta diversa dall'apparenza, che il mondo che cade sotto i vostri occhi, è un mondo immobile, statico. Cerchiamo di farvi capire che la realtà non è "una" che diviene, ma costituita da "molte" che "sono". 




"Allora", direte voi. "Dove nasce il movimento?" 
L'illusione del movimento è originata dalla natura del "sentire individuale"; ma, per comprendere ciò, dobbiamo renderci conto, una volta per tutte, che noi non siamo "creati" nel senso generalmente accettato, cioè che Dio ci abbia tratti da se stesso a un dato punto o momento della Sua esistenza senza tempo. Credere a questo, è quanto meno singolare se si riconoscono a Dio i caratteri di assoluto, infinito, eterno, immutabile. Dunque noi esistiamo in Lui in eterno e possiamo considerarci suoi figli solo nel senso che facciamo parte di Lui, della Sua natura, che siamo conseguenza della Sua esistenza. 
Solo in questo noi discendiamo da Lui. 
Egli è la Realtà Assoluta. Egli è. Egli "sente". Egli è "sentire assoluto". 


Che cos'è lo spirito?   E' l'essenza del tutto; è l'essere del tutto; è l'esistere del tutto; è il sentire del tutto; il sentire assoluto inteso come sentire dell'insieme comprendente il sentire delle parti.  Noi siamo il sentire delle parti, che è un sentire relativo e molteplice. 
Il sentire della parti nasce dall'illusorio frazionamento dell'Uno Assoluto nei molti. 
Perchè illusorio?   Se questo frazionamento fosse reale, il tutto non potrebbe esistere come Dio, allo stesso modo che un oceano, considerabile come un insieme di gocce, non esisterebbe più, come oceano, nel momento che in queste realmente lo si trasformasse. 
D'altra parte se non esistesse la molteplicità, il Sentire Assoluto non sarebbe tale, ma sarebbe un sentire unico e solo monolito. 


Ma come potrebbe mantenersi l'unità di Dio, in questa molteplicità, se ogni sentire, dal più semplice al più complesso, non fosse unito all'altro?  E come potrebbe realizzarsi questa unione, questa continuità, se non col fatto che il sentire più complesso contiene il sentire più semplice? 
Serie di sentire, dal più semplice al più complesso, sono le individualità. Ma poichè il sentire più complesso contiene il più semplice, nell'individuo, inteso come momento di questa serie, cioè noi quali ci sentiamo, nasce l'illusione di provenire "da", di tendere "a", cioè l'illusione dello scorrere.  Ma poichè il sentire più complesso è il Sentire Assoluto, che riassume e comprende in sè ogni sentire fino ai più semplici, questa illusione sfocia nella realtà di Dio. 




Noi, quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, esistiamo solo nell'illusione della separatività. 
In realtà esiste solo Lui. Ma poichè Lui è Sentire Assoluto, che comprende e riassume in sè ogni sentire, ciò garantisce che la nostra esistenza non finisce col finire dell'illusione. 


Ripeto: il fatto che il sentire più complesso comprenda il più semplice, genera nell'individuo l'illusione di provenire "da" e di tendere "a", e quindi l'illusione del divenire; ma è lo stesso fatto che realizza l'unità del tutto unendo, come un filo, tante perle in collane; sentire elementari, corrispondenti a sensibilità di piante ed animali, a sentire più complessi, corrispondenti a visioni limitate e circoscritte della realtà, come sono nell'uomo; e poi a sentire sempre più complessi, corrispondenti a visioni sempre più ampie, e poi a "comunioni" sempre più estese, fin'oltre l'ultimo scorrere, l'ultima separazione: l'identificazione in Dio. 
Come il selvaggio non diviene santo, ma l'uno e l'altro fanno parte di una stessa individualità, così noi, quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, non comprenderemo mai Dio, ma facciamo parte di una esistenza che in Lui si identifica. 
.............. 


Come spiegare più chiaramente ciò, Padre? Questo Tuo essere tutti noi che ci conduce a riconoscerci in Te? Come dirlo se nel momento che Ti chiamo o quando Ti penso, non chiamo Te, non penso a Te, perchè Tu non sei quello che riesco a pensare? 
Le parole non servono perchè appartengono ad un mondo che si fonda su ciò che sembra; e Tu sei! 
La nostra mente ci fa credere ad un io separato e Tu sei un Tutto-Uno-Assoluto. Il nostro sentimento ci assoggetta all'illusione del trascorrere, e Tu sei la realtà che non conosce sequenza. 
Come avvicinarci a questa realtà, se non abbiamo il coraggio di rinunciare a credere che l'io sopravvive? 
Noi, quali ci sentiamo, non siamo immortali; la nostra consapevolezza finisce per lasciare posto ad un'altra più grande consapevolezza; fino a che sentiamo che Tu solo esisti, che Tu solo sei la realtà. 
Ma neppure questo è l'ultimo sentire; è l'ultimo dell'illusione. Oltre è l'eterna realtà del Tuo essere, di fronte alla quale solo il silenzio è giusta voce." 








KEMPIS
















LA VITA..........


di GIOVANNI BORTOLI






“.... tu avrai capito la vita non quando tu farai il tuo dovere in mezzo
 agli uomini, ma quando lo farai nella solitudine. 

Non quando, pur raggiunta la notorietà, potrai avere una condotta
esemplare agli occhi degli uomini, ma quando l'avrai e nessuno lo saprà, neppure te stesso. 

Non quando tu farai il bene e ne vedrai gli effetti, ma quando lo farai e
non ti interesserà avere gratitudine, nè conoscere l'esito del tuo operato. 

Non quando tu potrai aiutare efficacemente e disinteressatamente, ma
quando aiuterai pur sapendo che il tuo aiuto a nessuno serve, neppure
a te stesso. 

Non quando tu ti sentirai responsabile di tutto ciò che fanno i tuoi simili, ma quando conserverai intatto il senso della tua responsabilità, pur sapendo d'essere l'unico uomo al mondo. 
Non quando tu avrai compreso che tutti gli esseri hanno gli stessi tuoi
diritti, ma quando tratterai l’essere più umile della terra come se fosse
Colui che ha nelle Sue mani le tue sorti. 

Non quando tu amerai i tuoi simili, ma quando tu stesso sarai i tuoi simili e l'amore






























di GIOVANNI BORTOLI




Essendo il Cerchio solo una figura ideale, non ha nessun proposito né azione a livello collettivo. Quello che ciascuno si sente di fare lo fa a titolo personale, e se ne assume tutta la responsabilità. 
Non esiste volontà di fare proseliti o di imporre le proprie opinioni e convinzioni. I Maestri stessi si rivolgono solo a chi cerca perché non è soddisfatto di ciò che sa dalla scienza, dalla filosofia, dalla religione. Essi sono portatori di una concezione e visione della Realtà che risponde a tutte le domande che, non trovando altrove risposta, creano angoscia e smarrimento; ma non hanno alcun proposito di diffondere né tanto meno imporre tale concezione. 
La diffusione che è avvenuta e può avvenire è spontanea, non provocata; avviene grazie al consenso liberamente manifestato di chi è venuto a conoscenza dell'insegnamento attraverso alla lettura dei libri pubblicati.  







Essendo il Cerchio solo una figura ideale, non ha nessun proposito né azione a livello collettivo. Quello che ciascuno si sente di fare lo fa a titolo personale, e se ne assume tutta la responsabilità. 


Non esiste volontà di fare proseliti o di imporre le proprie opinioni e convinzioni. I Maestri stessi si rivolgono solo a chi cerca perché non è soddisfatto di ciò che sa dalla scienza, dalla filosofia, dalla religione. Essi sono portatori di una concezione e visione della Realtà che risponde a tutte le domande che, non trovando altrove risposta, creano angoscia e smarrimento; ma non hanno alcun proposito di diffondere né tanto meno imporre tale concezione. 


La diffusione che è avvenuta e può avvenire è spontanea, non provocata; avviene grazie al consenso liberamente manifestato di chi è venuto a conoscenza dell'insegnamento attraverso alla lettura dei libri pubblicati. 








Isaac Newton e la sistemazione della fisica classica

di GIOVANNI BORTOLI





Grazie alle numerose scoperte di Isaac Newton, dalla legge di gravitazione universale a diverse ricerche sulla luce e le sue proprietà di scomposizione, la fisica classica ottiene una sua prima sistemazione nell'ambito delle trasformazioni scientifiche che avvengono tra '800 e '900.
Di queste scoperte parleremo più avanti. 
Oggi concentriamo la nostra attenzione sul metodo di ricerca, o meglio, sulle regole di ricerca che Newton, da grande matematico qual'era, chiamò reagulae philosophandi.
Ecco un breve riassunto di queste regole:

  1. Un fenomeno deve essere studiato solo con quelle cause che bastano a spiegarlo.
  2. Gli effetti uguali devono essere riferiti a una stessa causa. Per esempio, la luce del sole e quella di una candela di propagano allo stesso modo.
  3. Gli esperimenti sulle qualità di alcuni corpi possono essere estese anche ad altri corpi. Per esempio, ladurezza è una proprietà dei corpi.
  4. Una proposizione è valida fino a quando non si trova un esperimento che la fa decadere.
L'opera di Newton a fondamento della fisica classica, detta altrirmenti Meccanica, si intitola Philosophiae naturalis principia mathematica (Filosofia naturale dei principi matematici). Da quest'opera comprendiamo la grande attenzione dello studioso non solo per la forza, in particolare quella di gravità, ma anche per il movimento e per i concetti di tempo e spazio.
Relativamente al tempo e allo spazio egli fece delle distinzioni importanti, indicando:
  1. Lo spazio relativo, che indica tutto ciò che cade sotto la nostra esperienza;
  2. Lo spazio assoluto, che rimane sempre fisso e immobile;
  3. Il tempo relativo, cioè quello che si esprime con le unità di misura (ora, mese, anno);
  4. Il tempo assoluto,  che fluisce in maniera uniforme ed è quello che chiamiamo comunemente "durata".
Come ben sappiamo, Einstein avrebbe in seguito rivoluzionato la fisica classica criticando i concetti di spazio e tempo assoluti. Ma questa è un'altra storia...






21 MARZO 2012

di GIOVANNI BORTOLI



Non è raro che i problemi di filosofia possano sembrare, ai non addetti ai lavori, sterili elucubrazioni mentali, trastullamenti teorici che non servono a niente e a nessuno.
Riportare all'attualità le questioni filosofiche fondamentali è un problema che non tutti i filosofi di professione si pongono.



 Così un problema come quello del cognitivismo etico, e cioè il domandarsi se possa esistere o meno un'etica riconosciuta necessariamente e universalmente, può apparire come qualcosa di futile quando c'è ad esempio chi è costretto ad occupare scuole in disuso perché non ha i soldi per pagarsi una casa o quant'altro sia necessario per vivere.
Eppure, in un momento di crisi mondiale come quello che ci troviamo a vivere in quest'epoca storica, la domanda su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato non sembra certo essere priva di attualità.

La crisi delle strutture economiche e politiche porta spesso anche al crollo dell'apparato culturale e ideologico che su di esse si fondava. Che si sia o meno d'accordo col pensiero marxiano, è un fatto che molte delle regole sociali che seguiamo derivano direttamente dall'apparato economico-politico su cui si fonda il paese in cui viviamo. Inevitabile quindi, quando tutto sembra sgretolarsi, una crisi dei valori.

Così ci si trova di fronte, ad esempio, alla necessità di giudicare le violenze di piazza. Certo, si può nascondere la testa sotto la sabbia e raccontarsi che essa è frutto di pochi balordi amanti della ferocia e della prepotenza. Ma se ci si imbatte con estrema facilità in qualcuno che cerca di spiegarti la necessità della rivoluzione violenta, cominci a pensare che sia necessario un ripensamento dei valori su cui fino al giorno prima si fondava tutta la tua esistenza.

Si ripropone allora con maggior vigore quella domanda che può sembrare un vano esercizio intellettuale in momenti di maggiore tranquillità: è possibile creare un sistema di valori che sia universale e necessario? Un sistema di regole sociali stabile, in grado di resistere alle evoluzioni storiche e culturali? Un'etica scientifica, che fondi le sue massime su verità inattaccabili, eterne e immutabili?



Riconosco che la questione in un’epoca in cui si impone sempre di più il multiculturalismo, e con esso la necessità di far convivere insieme sistemi di valori differenti, rispettando tutte le forme di pensiero -, può sembrare anacronistica.

Tuttavia, se è vero che, fino a quando due sistemi di valori non entrano in contrasto tra di loro, la  convivenza può avvenire in maniera pacifica senza che sussistano discussioni su chi abbia ragione o torto, molto più problematico è il caso in cui tali sistemi si trovino in radicale disaccordo su questioni cruciali riguardanti il benessere fisico e psicologico della società che si trovano a condividere.


A metà del Novecento  la degenerazione prima economica e poi politica della Germania, portò a far credere a moltissimi tedeschi che fosse “legittimo”, e addirittura “giusto” uccidere milioni di persone solo sulla base della loro provenienza razziale.

Non voglio in nessun modo paragonare questo momento storico con quello, né penso che si possa giungere alle medesime tragiche conclusioni, ma voglio mettere in evidenza una questione molto importante: il fatto che oggi la maggior parte di noi consideri quell'evento storico come un’aberrazione, come una violazione inaccettabile dei diritti umani, è dovuto al fatto che la maggior parte di noi condivide il principio secondo il quale tutti gli uomini nascono con pari dignità e diritti.


Ma tale principio, lungi dall'essere ovvio, è rigettato da molte culture che giudicano il valore di una vita umana in base a criteri completamente differenti da quelli dell'uomo occidentale medio.



Ecco quindi il cuore della questione: non esiste, O almeno non è stato ancora trovato, un principio fondamentale, che sia condivisibile da tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, sul quale poter fondare un sistema di valori fondamentali stabili.

Scrive Paolo Flores d'Arcais in un articolo comparso sull'Almanacco di Filosofia di
"Micromega"[1]: "La dimostrazione dell'esistenza di una legge morale naturale non può avvenire in modo circolare, sostenendo che chi non riconosca o condivida tale legge dimostri con ciò la sua aberrazione rispetto alla “natura umana”, manifesti il suo essere disumano: non possiamo presupporre come già dato cosa sia naturale o contro natura, umano e disumano visto che proprio questo è quanto dobbiamo dimostrare.”

Non possiamo stabilire che cosa sia “disumano” se prima non ci accordiamo su cosa sia la “natura umana”; non possiamo dire che una norma, un comportamento siano giusti o sbagliati se prima non stabiliamo un criterio di giustizia.

E se questo criterio c'è, ma è solo relativo alla cultura di riferimento, allora non potremmo mai definire nulla, nemmeno il burka o lo stupro, nemmeno l'olocausto, come assolutamente sbagliati e inaccettabili.


È
  questa una questione che domina la discussione filosofica fin dai suoi albori, basta pensare all'inesauribile disputa fra Platone e i sofisti.

Qualcuno, nel corso dei secoli, si è rassegnato alla non reperibilità di un principio universale su cui fondare l'etica, e quindi ha accettato la conclusione relativista per cui un'azione è giusta o sbagliata solo in base al sistema di valori a cui fa riferimento, come appunto sosteneva il sofista Protagora. 



Forse avrete già intuito che chi scrive è invece convinta che tale principio debba sussistere, e che uno dei doveri principali della ricerca filosofica presente e futura debba essere proprio quello di stabilire se esso esista o meno e, se esiste, concentrare tutti gli sforzi nel definirlo in maniera chiara e comprensibile a tutti.

Contrariamente a quanto pensano molti intellettuali contemporanei, non è l'imposizione di un dogma etico che genera totalitarismi, e conseguenti tragedie umane, ma è proprio il sancire l'equivalenza di tutti i valori che apre la strada all'affermazione di principi che seguono la semplice legge del più forte, sia questa forza fisica, dialettica, economica o politica.


La libertà, sebbene in una certa misura sia sacrosanta, è innanzitutto possibilità di sbagliare. E non è un caso forse che proprio questa parola dal suono tanto nobile sia stata la bandiera di un partito che ha devastato l'Italia negli ultimi anni. 

Mi rendo conto che l'idea di un principio di giustizia che sia inattaccabile possa sembrare un concetto retrogrado e possa perplimere più di qualcuno, proprio perché sembra mettere in pericolo la convivenza di culture diverse, ma in realtà è esattamente il contrario. Soltanto stabilendo alcuni punti fondamentali che nessuno può mai permettersi di scavalcare è possibile una civile convivenza tra miliardi di persone che hanno idee, origini e convinzioni diversissime tra di loro.

Perché sussista un tale principio esso dovrebbe avere il carattere dell'evidenza.
Non si tratta di trovare una norma che metta d'accordo tutti, accettata convenzionalmente, ma di una verità inattaccabile a cui ciascuno deve necessariamente dare il proprio assenso. Non si è d'accordo con la legge di gravità, ma tutti sono “costretti” a riconoscere la sua validità.


Il principio su cui dovrebbe fondarsi l'etica universale dovrebbe avere quindi lo stesso carattere di scientificità della legge di gravità.


Per fare questo è quindi necessario che la filosofia si affianchi a discipline rigorose come la medicina, la biologia e l'antropologia, che studiano l'uomo da un punto di vista scientifico; che la smetta di farneticare e perdersi in discussioni autoreferenziali che nascono e muoiono nelle aule universitarie. 



 Essa deve tornare in mezzo agli uomini, affiancarli e costituire un sistema di riferimento indubitabile in cui il sentimento di indignazione diventa un dovere politico e morale, in cui è necessario lottare per diritti che, pur apparendo fondamentali, sembrano poter essere messi in discussione in ogni momento e senza possibilità di appello.





21 MARZO 2012

di GIOVANNI BORTOLI









  INTRODUZIONE A «SO QUEL CHE FAI», 



  Il Linguaggio, tra Innatismo ed Empirismo 

Inserito nella sezione Filosofia un interessante articolo di Cinzia Ruggeri: Il Linguaggio, tra Innatismo ed Empirismo.
Ecco un breve abstract fornitoci dall'autrice: La teoria innatistica sull’avvento delle facoltà linguistiche viene qui criticata avvalendosi della dialettica potenza/atto e di tesi wittgensteiniane tratte dalle “ricerche filosofiche” che permettono di affrontare il problema linguistico mediante un approccio empiristico e storicistico, non escludendo tuttavia totalmente l’innatismo e giungendo così ad una onesta riflessione circa la genesi, l’uso e l’apprendimento del linguaggio.
Buona lettura! 


  DONNIE DARKO E LA FILOSOFIA DEI VIAGGI NEL TEMPO 

Marco Apolloni ci presenta un suggestivo articolo che sottopone le tematiche del film Donnie Darko al microscopio della meccanica quantistica e della filosofia contemporanea. 

 


  RICCARDO DRI - LE DODICI MALATTIE DEL CIELO 

E' stata inserita nella sezione Biblioconsigli una scheda del libro di Riccardo Dri dal titolo "Le dodici malattie del cielo", edizioni Sovera. Nella scheda è l'introduzione al volume che ci ha fornito l'autore; si rimanda al suo sito per le informazioni in merito all'acquisto.



FREUD: TEMI E SVILUPPI ESTETICI 

Inserita, nella sezione Filosofia/Estetica, la relazione di Jacopo Agnesina (sicché mia!) dal titolo «Freud: temi e sviluppi estetici». In essa si vuole mostrare l'apertura freudiana ai temi estetici: partendo dai testi di Freud è possibile tracciare alcune direttive che guidano attraverso la complessità-coerente di queste concezioni. In chiusura si tracciano alcuni sviluppi che psicoanalisti di questo secolo hanno apportato all'originale pensiero freudiano. 

 


  HOBBES O DELL'ANORMALITA' 

Pubblichiamo l'interessante contributo di Gianfranco Cordì dal titolo «Hobbes o dell'anormalità» nel quale viene analizzata la specificità del pensiero del filosofo inglese, alla luce dei continui riferimento alla "paura" che si materializza sotto le sembianze regolatrici del mitico Leviatano. Hobbes «tratteggia quella che è una condizione umana tutta incentrata su di un punto preciso: l’assenza, in ogni caso, della cosiddetta normalità». L'interessante scritto è raggiungibile dalla sezione Filosofia/Filosofia del '600
  IL FILOSOFO CHI è? 
il filosofo forse è, proprio un filosofo, perchè dubita del suo sapere e studia nei pensieri altri, miscelandoli con il proprio pensiero, per studiare e scoprire altri pensieri dalla sua curiosità di sapere altre conoscenze. il filosofo è come un moto perpetuo nel suo fare, perché sa di non sapere e ricerca saperi, fino al proprio impedimento. quando si ferma non è più un filosofo. Ma è stato filosofo. ciao da guido 

  RE: IL PRINCIPIO DI NON IDENTITA E DI CONTRADDIZIONE 

Facendo un approfondimento su Platone, e leggendo "Platone e l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo", ho trovato questa definizione da lui espressa sul problema del "nulla" "Quando sosteniamo che A non è B, non intendiamo alludere al niente assoluto, che per l'appunto non esiste, ma soltanto a ciò che è diverso dall'essere, ossia al niente relativo. In altre parole l'unico modo in cui può esistere il non-essere è il diverso, che però in quanto tale, non è il nulla assoluto, <<partecipando>> a...



  IL PRINCIPIO DI NON IDENTITA E DI CONTRADDIZIONE 
La posizione di A e gia la sua negazione non A quindi B ma gia la posizione di B e la sua negazione non B quindi A ma gia la posizione di A e la sua negazione non A quindi B ma gia la posizione di B e la sua negazione non B quindi A questa successione è infinita non esiste più la distinzione......